La “scienza triste” è un termine dispregiativo per l’economia. Il saggista, storico e filosofo scozzese Thomas Carlyle ha usato questa espressione in un saggio del 1849.
L’origine della storia
La storia è questa: Thomas Carlyle, scrittore e filosofo scozzese, definì l’economia “la scienza triste” in riferimento a Thomas Malthus, quel lugubre economista che sosteneva che l’umanità fosse intrappolata in un mondo in cui la crescita della popolazione avrebbe sempre messo a dura prova le risorse naturali e portato una diffusa miseria. Una visione davvero squallida.
Ma questo mito delle origini si pen definire, appunto, mitico. Carlyle ha coniato l’espressione “la scienza triste”. E Malthus era, senza dubbio, un uomo triste. Ma Carlyle etichettò la scienza “triste” quando scrisse della schiavitù nelle Indie occidentali.
L’espressione “La scienza triste” compare per la prima volta nel trattato di Thomas Carlyle del 1849, “Occasional Discourse on the Negro Question” (Discorso occasionale sulla questione dei negri), in cui si schiera a favore della reintroduzione della schiavitù per ripristinare la produttività delle Indie Occidentali: “Non una ‘gaia scienza’, direi, come alcune di cui abbiamo sentito parlare; no, una tetra, desolata e, in effetti, piuttosto abietta e angosciante; quella che potremmo chiamare, a titolo di eminenza, la scienza triste”.
Perché l’economia era triste?
L’economia era “triste” nel “trovare il segreto dell’Universo nella domanda e nell’offerta, e nel ridurre il dovere dei governanti umani a quello di lasciare gli uomini in pace” o alla libertà personale. Invece, il “nero ozioso delle Indie Occidentali” dovrebbe essere “costretto a lavorare come si conviene e a fare la volontà del Creatore che lo ha costruito”. Carlyle estese questo imperativo anche alle altre razze.
Tuttavia, cosa abbia ispirato esattamente il termine “scienza triste” è stato oggetto di dibattito. Coloro che dubitano di questa storia sostengono che Carlyle non stesse reagendo a Malthus, ma a economisti come John Stuart Mill, che sostenevano che le istituzioni, e non la razza, spiegavano perché alcune nazioni erano ricche e altre povere. Carlyle attaccò Mill non per aver sostenuto le previsioni di Malthus sulle terribili conseguenze della crescita demografica, ma per aver sostenuto l’emancipazione degli schiavi.
È importante notare che la frase di Carlyle, “la scienza triste”, è stata citata così spesso che si rischia di pensare che l’opinione che ne è alla base appartenga solo a lui e ai suoi seguaci. Tuttavia, l’opinione era diffusa all’epoca, e ritenuta giustificabile da molti economisti.
Eravamo nel 1849, ricordatelo. In pieno Impero Britannico, con la relativa Pax Britannica. Neanche gli Stati Uniti avevano ancora abolito la schiavitù. Oggi discorsi come questi ci sembrano dichiaratamente razzisti, ma all’epoca erano assolutamente la norma.
La visione di oggi
Oggi, quando sentiamo l’espressione “la scienza triste”, è tipicamente in riferimento ai risultati più deprimenti dell’economia (ad esempio: sulla globalizzazione che uccide i posti di lavoro nel settore manifatturiero: “Beh, è per questo che la chiamano la scienza triste“, ecc). In altre parole, tendiamo ad allinearci con Carlyle nel riconoscere che un elemento ineludibile dell’economia sia la miseria umana.
Ma la giusta etimologia ribalta questa interpretazione. Infatti, allinea l’economia con la moralità e contro il razzismo, piuttosto che con la miseria e contro la felicità. Carlyle non riusciva a trovare una giustificazione per la schiavitù nel pensiero economico politico, e considerava questo fatto “triste”.
Gli studenti di economia dovrebbero essere orgogliosi: la loro “scienza” era allora (come può essere oggi) una forza per un mondo più giusto e, soprattutto, meno triste.