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L’evoluzione e le sfide della gestione delle imprese in Italia: un'analisi alla luce della Relazione Annuale della Banca d’Italia 2023

Gestione d’impresa: in Italia manager più anziani e con un livello di istruzione inferiore rispetto al resto d’Europa

Il 57% dei manager italiani ha più di 50 anni. Le imprese italiane, infatti, sono dirette da manager che, in media, sono più anziani e hanno un livello di istruzione inferiore rispetto a quelli delle principali economie europee.

La Relazione Annuale della Banca d’Italia per il 2023 rappresenta un documento fondamentale per comprendere lo stato attuale dell’economia italiana, con un focus particolare sulle dinamiche che caratterizzano il tessuto imprenditoriale del Paese. Questo rapporto, come ogni anno, offre una fotografia dettagliata delle principali tendenze economiche, delle criticità emergenti e delle sfide future. Tuttavia, l’analisi del 2023 mette in luce aspetti particolarmente preoccupanti relativi alla struttura delle imprese italiane, alla loro governance e alla competitività rispetto alle altre economie europee.

In questo contesto, emerge un quadro imprenditoriale segnato da significative difficoltà: manager mediamente più anziani e con un livello di istruzione inferiore rispetto ai loro omologhi europei, una predominanza di piccole e medie imprese (PMI) a conduzione familiare, e una scarsa apertura al mercato dei capitali. Questi elementi, strettamente interconnessi, contribuiscono a creare un sistema produttivo che fatica a mantenere il passo con l’innovazione e la competitività richieste da un mercato sempre più globalizzato e dinamico.

La struttura imprenditoriale italiana: un sistema di PMI a conduzione familiare

Il peso delle piccole e medie imprese nell’economia italiana

L’economia italiana è storicamente caratterizzata dalla presenza preponderante di piccole e medie imprese (PMI). Secondo i dati della Banca d’Italia, queste rappresentano oltre il 90% del totale delle imprese attive nel Paese e contribuiscono significativamente al PIL nazionale. Tuttavia, questo modello, sebbene abbia permesso all’Italia di sviluppare una forte rete di eccellenze artigianali e industriali, presenta anche criticità strutturali che emergono con sempre maggiore evidenza.

Le PMI italiane sono, in larga misura, imprese a conduzione familiare. Questa caratteristica ha storicamente rappresentato un punto di forza, permettendo un forte legame con il territorio, una grande flessibilità e un approccio artigianale alla produzione che ha fatto delle PMI italiane un simbolo di qualità in molti settori, dall’agroalimentare alla moda, dal design all’automotive. Tuttavia, questo stesso modello ha generato alcune dinamiche che, nell’attuale contesto economico, risultano essere limitanti.

La conduzione familiare e il familismo imprenditoriale

La conduzione familiare delle PMI italiane ha portato alla diffusione di un modello gestionale in cui la proprietà e la direzione dell’impresa tendono a coincidere, spesso per generazioni. Questo fenomeno, noto come “familismo imprenditoriale“, si traduce in una gestione aziendale che privilegia il mantenimento del controllo all’interno della famiglia, a discapito della ricerca di competenze esterne o della diversificazione delle competenze manageriali.

Secondo la Relazione della Banca d’Italia 2023, la tendenza a mantenere la gestione dell’impresa all’interno della famiglia ha portato a un invecchiamento progressivo della classe dirigente aziendale. I manager delle PMI italiane sono mediamente più anziani rispetto ai loro omologhi europei, con un’età media che si attesta intorno ai 60 anni. Questo dato è particolarmente significativo se confrontato con quello di altri Paesi europei, dove l’età media dei manager è sensibilmente più bassa.

L’invecchiamento della classe dirigente non è l’unico problema. La selezione dei manager avviene spesso sulla base di legami di parentela anziché su criteri meritocratici o di competenza. Questo si traduce in una minore apertura verso l’innovazione e l’adozione di nuove tecnologie, nonché in una limitata propensione a implementare pratiche gestionali moderne. Il risultato è una riduzione della competitività delle imprese italiane, che faticano a mantenere il passo con le aziende di altri Paesi europei, dove la selezione dei manager avviene in modo più meritocratico e basato sulle competenze.

Il ricambio generazionale e le competenze manageriali

Il mancato ricambio generazionale rappresenta una delle principali sfide per le PMI italiane. Nonostante la presenza di una nuova generazione di giovani imprenditori altamente qualificati, spesso formati in prestigiose università italiane e straniere, l’ingresso di queste nuove leve nel tessuto imprenditoriale risulta difficoltoso. La gestione familiare delle imprese tende infatti a favorire la continuità della leadership all’interno della famiglia, anche a scapito delle competenze necessarie per affrontare le sfide di un mercato in rapida evoluzione.

Questo fenomeno ha ripercussioni dirette sulla capacità innovativa delle imprese italiane. I giovani manager, dotati di competenze aggiornate e di una visione internazionale, faticano a trovare spazio all’interno delle PMI familiari, che preferiscono affidarsi a figure già consolidate, sebbene meno preparate a fronteggiare le sfide attuali. Di conseguenza, le imprese italiane risultano meno propense a investire in ricerca e sviluppo, meno inclini ad adottare nuove tecnologie digitali e meno aperte a forme di organizzazione del lavoro più flessibili e innovative. Insomma, meno di tutto.

La Relazione della Banca d’Italia sottolinea come questa mancanza di ricambio generazionale e di apertura verso le nuove competenze rappresenti un freno significativo alla produttività e alla competitività delle PMI italiane. In un contesto economico sempre più globalizzato (con buona pace di chi dichiarava prematuramente morta la globalizzazione), in cui l’innovazione e la capacità di adattamento sono fattori chiave per il successo, le imprese italiane rischiano di rimanere indietro rispetto ai concorrenti europei e globali.

La scarsa istruzione dei manager italiani: un limite all’innovazione

Livello di istruzione dei manager e competitività delle imprese

Un altro elemento critico evidenziato dalla Relazione annuale della Banca d’Italia è il basso livello di istruzione dei manager italiani rispetto ai loro omologhi europei. Questo aspetto è strettamente correlato alla predominanza delle PMI familiari, dove la scelta dei dirigenti avviene spesso sulla base di criteri di appartenenza familiare piuttosto che su competenze professionali acquisite tramite percorsi di istruzione superiore o esperienze lavorative in contesti diversificati.

Il livello di istruzione dei manager è un fattore determinante per la competitività aziendale. Manager con una formazione superiore, soprattutto se arricchita da esperienze internazionali, sono generalmente più propensi ad adottare pratiche gestionali innovative, a investire in tecnologie avanzate e a esplorare nuovi mercati. Inoltre, un livello di istruzione più elevato è spesso associato a una maggiore capacità di comprensione delle dinamiche globali e delle opportunità offerte dalla digitalizzazione e dall’internazionalizzazione.

In Italia, tuttavia, la situazione è diversa. Molti dei manager delle PMI italiane non hanno completato percorsi di istruzione superiore o non hanno acquisito competenze specifiche in ambito manageriale. Questo si traduce in una minore propensione a innovare e a investire in ricerca e sviluppo, fattori che sono essenziali per mantenere la competitività in un mercato globalizzato. La Relazione della Banca d’Italia evidenzia come questa carenza formativa rappresenti un limite strutturale che impedisce alle imprese italiane di cogliere appieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dalle dinamiche globali.

L’impatto sulla produttività e sull’innovazione

Il basso livello di istruzione dei manager italiani ha ripercussioni dirette sulla produttività e sull’innovazione delle imprese. Le aziende gestite da dirigenti con una formazione limitata tendono a investire meno in ricerca e sviluppo, a essere meno aperte all’adozione di nuove tecnologie e a mantenere modelli organizzativi tradizionali, poco flessibili e meno efficienti.

Questo si traduce in un divario crescente rispetto ai principali concorrenti europei. Le imprese italiane, pur potendo contare su una tradizione di eccellenza in molti settori, faticano a competere in un contesto in cui l’innovazione e la capacità di adattamento sono fattori chiave per il successo. La Relazione della Banca d’Italia sottolinea come questa situazione rappresenti una delle principali sfide per l’economia italiana, che deve necessariamente investire in formazione e in aggiornamento delle competenze manageriali per poter rimanere competitiva a livello internazionale.

La riluttanza ad aprirsi al mercato dei capitali: un freno alla crescita

La scarsa propensione delle imprese alla quotazione in borsa

Un altro aspetto critico evidenziato dalla Relazione annuale della Banca d’Italia riguarda la scarsa propensione delle imprese italiane ad aprirsi al mercato dei capitali. In particolare, le PMI italiane mostrano una forte riluttanza a quotarsi in borsa, preferendo mantenere un controllo familiare e ristretto sulla proprietà e sulla gestione dell’impresa. Questo atteggiamento, sebbene possa garantire una maggiore autonomia decisionale, limita fortemente le possibilità di crescita e di accesso a risorse finanziarie necessarie per espandere e innovare le attività aziendali.

La quotazione in borsa rappresenta un passaggio cruciale per molte imprese, in quanto permette di raccogliere capitali da investitori esterni e di accedere a risorse finanziarie che possono essere utilizzate per investimenti in ricerca e sviluppo, per l’espansione in nuovi mercati o per l’acquisizione di altre aziende. Tuttavia, le imprese italiane, in particolare le PMI a conduzione familiare, tendono a evitare questo percorso, preferendo mantenere un controllo diretto e familiare sull’azienda.

Le implicazioni della chiusura verso il mercato dei capitali

La riluttanza ad aprirsi al mercato dei capitali ha diverse implicazioni negative per le imprese italiane. In primo luogo, limita la capacità di queste aziende di raccogliere risorse finanziarie necessarie per investire in innovazione e per crescere a livello internazionale. In secondo luogo, riduce la possibilità di diversificare il rischio e di accedere a competenze manageriali esterne che potrebbero arricchire e migliorare la gestione dell’impresa.

In un contesto economico in cui l’accesso a risorse finanziarie e la capacità di innovare sono fattori cruciali per la competitività, questa chiusura verso il mercato dei capitali rappresenta un freno significativo alla crescita delle imprese italiane. Le aziende che non riescono a raccogliere capitali sufficienti faticano a competere con quelle di altri Paesi, dove l’accesso ai mercati finanziari è più sviluppato e dove le imprese sono più propense a quotarsi in borsa e a raccogliere fondi tramite emissioni di titoli.

La Relazione della Banca d’Italia sottolinea come questa chiusura verso il mercato dei capitali rappresenti un problema strutturale per l’economia italiana. Per superare questo ostacolo, è necessario un cambiamento culturale che porti le imprese italiane, in particolare le PMI, a considerare la quotazione in borsa e l’apertura al capitale esterno non come una minaccia, ma come un’opportunità per crescere e per migliorare la propria competitività.

La necessità di interventi strutturali

Alla luce delle problematiche evidenziate, emerge chiaramente la necessità di interventi strutturali per migliorare la governance delle imprese italiane e favorire un maggiore accesso al mercato dei capitali. Questi interventi dovrebbero mirare a promuovere una maggiore apertura delle PMI italiane verso il capitale esterno, incentivando la quotazione in borsa e la diversificazione delle fonti di finanziamento.

Inoltre, è necessario promuovere una cultura imprenditoriale che valorizzi le competenze manageriali e che favorisca il ricambio generazionale all’interno delle imprese. Questo può essere ottenuto attraverso politiche di formazione continua per i manager, incentivi fiscali per le imprese che investono in formazione e innovazione, e misure volte a facilitare l’ingresso dei giovani imprenditori nel tessuto produttivo nazionale.

Solo attraverso questi interventi sarà possibile rafforzare il tessuto imprenditoriale italiano, rendendolo più competitivo, innovativo e capace di affrontare le sfide di un mercato globale in continua evoluzione. Il futuro dell’economia italiana dipende dalla capacità di cogliere queste opportunità e di superare le resistenze che ancora oggi limitano lo sviluppo delle nostre imprese.

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