Il debito pubblico americano rappresenta da decenni una fonte di stabilità per i mercati globali, ma potrebbe anche diventare un tallone d’Achille. In un contesto di tensioni commerciali e strategiche, la concentrazione di titoli del Tesoro in mano a potenze estere apre a scenari di vulnerabilità finanziaria e geopolitica. Quali sono le implicazioni geopolitiche e finanziarie della dipendenza degli Stati Uniti dai creditori stranieri?
Il debito pubblico degli Stati Uniti ha raggiunto livelli senza precedenti, superando i 36.218,923 miliardi di dollari a febbraio 2025, pari a circa il 130% del PIL nazionale, secondo Trading Economics. I privati detengono circa l’80% del debito pubblico, mentre gli enti governativi ne detengono circa il 20%.
Una porzione significativa di questo debito è detenuta da investitori stranieri, rendendo l’economia americana vulnerabile a dinamiche geopolitiche e decisioni di politica economica estera. In particolare, le tensioni commerciali e politiche con paesi come la Cina hanno sollevato preoccupazioni riguardo alla possibilità che questi creditori possano influenzare i mercati finanziari statunitensi attraverso la gestione delle loro partecipazioni in titoli del Tesoro USA.
La struttura del debito pubblico statunitense
Il debito pubblico degli Stati Uniti si suddivide nelle due categorie precedentemente citate: il debito detenuto dal pubblico e quello intragovernativo. Il primo rappresenta circa il 99% del PIL nazionale ed è detenuto da investitori privati, istituzioni finanziarie e governi stranieri. Il secondo comprende i titoli posseduti da enti governativi statunitensi, come il Social Security Trust Fund.
Negli ultimi anni, la percentuale del debito detenuto da investitori stranieri è diminuita, passando dal 44% nel 2011 al 22% nel 2023 . Tuttavia, in termini assoluti, la quantità di debito posseduta da creditori esteri rimane significativa, rendendo gli Stati Uniti suscettibili a decisioni di investimento da parte di questi attori.
Il ruolo della Cina e le implicazioni geopolitiche
La Cina è uno dei principali detentori di titoli del Tesoro statunitensi, con una partecipazione di circa 1,3 trilioni di dollari fino all’inizio della sua crisi immobiliare, quella che ha portato al fallimento del colosso Evergrande, posizione oggi ridotta a circa 800 miliardi. Questa posizione conferisce a Pechino un potenziale strumento di influenza nelle relazioni bilaterali con Washington. Ad esempio, durante periodi di tensione commerciale, come la guerra dei dazi avviata dall’amministrazione Trump, si è discusso della possibilità che la Cina possa ridurre le sue partecipazioni in titoli USA come forma di pressione politica. E in realtà l’ha già fatto nei giorni scorsi.
C’è da dire che una vendita massiccia di titoli del Tesoro da parte della Cina comporterebbe rischi significativi anche per Pechino. Una tale mossa potrebbe destabilizzare i mercati finanziari globali, aumentare i tassi di interesse statunitensi e ridurre il valore delle restanti partecipazioni cinesi. Inoltre, considerando l’interconnessione delle economie globali, un crollo dell’economia statunitense avrebbe ripercussioni negative anche sull’economia cinese, fortemente orientata all’export.
La marcia indietro di Trump e i mercati obbligazionari
Il 10 aprile 2025, Trump ha annunciato una pausa di 90 giorni sui dazi reciproci (tariffe minime al 10%), mantenendo però un aumento delle tariffe verso la Cina fino al 125%. Questa decisione è arrivata dopo giorni di turbolenza sui mercati, con crolli azionari globali e un’impennata dei rendimenti dei Treasury americani: il T-Note a 10 anni è passato da valori sotto il 4% a oltre il 4,5% in pochi giorni, mentre il 30 anni ha superato il 5%. Quando i rendimenti salgono, i prezzi dei bond scendono, segnalando un’ondata di vendite. Alcuni analisti hanno collegato questa dinamica alla paura che la Cina, uno dei maggiori detentori esteri di debito USA, potesse usare la vendita di Treasuries come arma di ritorsione commerciale.
La Cina e i suoi 800 miliardi di dollari in bond USA
La Cina detiene (ancora) circa 800 miliardi di dollari di Treasury bonds (dati aggiornati a fine 2024), rappresentando circa l’8,9% del debito pubblico americano posseduto da investitori esteri. Questa cifra la rende il secondo detentore straniero dopo il Giappone (1.059 miliardi). La vendita massiccia di questi titoli potrebbe effettivamente deprimere i prezzi e far salire i rendimenti, esercitando pressione sull’economia USA, già alle prese con un debito pubblico di 36.200 miliardi di dollari e costi di rifinanziamento crescenti. L’idea di una “vendetta” cinese tramite lo “scarico” di bond è stata definita da alcuni un’“opzione nucleare”, anche se rischiosa per Pechino stessa dato che, come detto, svaluterebbe i suoi asset in dollari.
È altresì molto plausibile che la Cina abbia venduto. Diversi elementi supportano questa ipotesi. La Cina ha risposto ai dazi USA del 104% (poi alzati al 125%) con contro-dazi dell’84%, mostrando una postura aggressiva. Vendere Treasuries sarebbe una mossa complementare per colpire gli Stati Uniti finanziariamente. La rapida salita dei rendimenti (da sotto il 4% a 4,5% per il 10 anni) suggerisce un’ondata di vendite oltre la normale reazione degli hedge fund o degli investitori privati. Post su X e articoli riportano il sospetto che Pechino abbia davvero iniziato a “bombardare” i bond USA, scaricandone una parte. Un’accelerazione di questa strategia in risposta ai dazi non sarebbe dunque sorprendente.
Quanto debito americano hanno venduto i cinesi?
Quantificare l’entità esatta dello “scarico” è difficile senza dati ufficiali aggiornati al 10 aprile 2025. Ma possiamo fare alcune stime basate su indizi indiretti.
Un aumento di 50-60 punti base (da 4% a 4,5-4,6%) in pochi giorni è significativo. Secondo alcuni analisti, una vendita di 50-100 miliardi di dollari di Treasuries da parte di un attore come la Cina potrebbe contribuire a un movimento di questa portata, soprattutto in un contesto di panico di mercato. Un post su X menziona una vendita di “50 miliardi” come possibile causa dell’1% di perdita sui bond, il che è coerente con questa stima.
La Cina non scaricherebbe mai, però, l’intero portafoglio (800 miliardi) in una volta, perché ciò danneggerebbe anche i suoi interessi (come abbiamo accennato prima), svalutando i restanti asset in dollari (circa 3.000 miliardi totali, incluse riserve). Una vendita graduale e strategica, magari nell’ordine del 5-10% del totale (40-80 miliardi), è più realistica.
Le dinamiche dei mercati finanziari e i rischi associati
La vendita di titoli del Tesoro da parte di investitori stranieri può quindi chiaramente influenzare significativamente i mercati finanziari. Ad esempio, nel 2019, la Cina ha venduto titoli per un valore di 10,4 miliardi di dollari in un solo mese, portando il totale delle vendite a 67 miliardi di dollari nell’arco di un anno. Sebbene il mercato abbia assorbito queste vendite grazie all’interesse di altri investitori, un’accelerazione di questo trend potrebbe portare a un eccesso di offerta, riducendo i prezzi dei titoli e aumentando i rendimenti richiesti dagli investitori.
Un aumento dei rendimenti dei titoli del Tesoro si traduce in costi di finanziamento più elevati per il governo statunitense, con potenziali ripercussioni sul bilancio federale e sull’economia in generale. Inoltre, tassi di interesse più alti possono influenzare negativamente i mercati azionari e rallentare la crescita economica.
Il dilemma di Triffin e la posizione del dollaro
Il dilemma di Triffin evidenzia le contraddizioni insite nel ruolo del dollaro come valuta di riserva globale. Affinché il resto del mondo disponga di un’adeguata liquidità in dollari — condizione necessaria per sostenere l’espansione del commercio e della finanza globale — gli Stati Uniti devono accumulare sistematicamente deficit nella bilancia dei pagamenti, esportando capitali e importando beni. Tuttavia, questa stessa necessità mina progressivamente la fiducia nella stabilità e nel valore della valuta di riserva, alimentando il timore che il paese emittente non sia in grado di onorare indefinitamente i propri impegni. Il dilemma mette così in luce la tensione tra il ruolo egemonico del dollaro e la sostenibilità a lungo termine della politica economica statunitense.
…ma la Costituzione americana dice che l’America sarà sempre in grado di ripagare il proprio debito…
E invece non è vero, come a volte si sente dire, che la Costituzione americana garantisca che gli Stati Uniti saranno sempre in grado di onorare i propri debiti. Tuttavia, esiste una disposizione costituzionale che viene spesso citata in questo contesto, e che merita di essere chiarita.
Si tratta della Sezione 4 del 14° Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che recita:
“The validity of the public debt of the United States, authorized by law, […] shall not be questioned.”
Tradotto: “La validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato dalla legge, […] non deve essere messa in discussione.”
Questa clausola fu originariamente inserita per garantire il riconoscimento del debito contratto dal governo federale durante la Guerra Civile, e per impedire che eventuali futuri governi potessero rifiutarsi di onorare tali obbligazioni. Nel corso degli anni, però, è stata oggetto di interpretazioni più ampie, specie durante le crisi legate al tetto del debito (frequenti negli USA).
Detto ciò, la Costituzione non garantisce materialmente che gli Stati Uniti possano onorare sempre i propri debiti. Può affermare che non si possa mettere in discussione la validità di tali debiti, ma ciò non implica che il governo sia tecnicamente o finanziariamente in grado di ripagarli in ogni circostanza. In pratica, la solvibilità del Tesoro dipende dalla capacità del governo di raccogliere entrate fiscali, gestire la spesa pubblica e mantenere la fiducia dei mercati. Se il Congresso non autorizza nuovi prestiti (a causa di un blocco sul tetto del debito, ad esempio), il rischio tecnico di default può concretizzarsi — anche se solo temporaneamente e per ragioni politiche.