Il pregiudizio di genere è quanto più difficile da abbattere. Le donne sono portate per la cura e l’insegnamento, gli uomini per i numeri e le scienze. È davvero così? No, che non lo è. E che le donne parlino di numeri e di soldi fa bene a tutti: a loro stesse, ai loro partner, alle loro famiglie, alla società e allo Stato. Avete idea di quanto ci costa la disparità di genere?
Si calcola che se l’occupazione femminile raggiungesse nel nostro Paese il 60% il nostro Pil aumenterebbe di ben 7 punti percentuali. E invece c’è ancora tanto da fare. La convinzione che ci siano lavori da uomini e lavori da donne è dura a morire.
È un problema culturale con cui ci si misura fin da piccoli. Per questo libri come Le signore non parlano di soldi (Fabbri Editori) di Azzurra Rinaldi, docente di Economia politica all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza e CFO di Equonomics, fanno bene.
Non è insolito sentire l’espressione “le signore non parlano di soldi” o frasi simili, perché – come spiega l’autrice – una donna che parla di soldi risulta ambiziosa, materiale, venale. Una convinzione sociale che Azzurra Rinaldi vuole scardinare dimostrando come la discriminazione di genere non convenga a nessuno.
Azzurra, ti definisci un’economista femminista, come rispondi a chi ritiene che la disparità di genere ormai si sia sensibilmente ridotta?
Rispondo con dati e numeri. Gli amministratori delegati donna nel mondo sono solo il 5%. Basterebbe questo dato per rendersi conto di quanto la parità di genere sia lontana.
Ci sono molte donne che hanno una sorta di timore reverenziale verso l’economia e la gestione del denaro, come convincerle che invece è fondamentale che se ne occupino?
Siamo abituate a pensare che l’economia sia una cosa lontanissima dalla nostra vita e invece viviamo in un sistema in cui il denaro è fondamentale perché è uno strumento di libertà, permette di avere potere sulla propria vita, significa poter fare ciò che si desidera, anche di decidere di uscire da una relazione in cui non si vuole più stare.
Nel tuo libro parli ampiamente delle attività di cura non retribuite. Attività di cui si fanno carico le donne a discapito delle mansioni retribuite. Quale potrebbe essere una soluzione?
A livello mondiale il 75% delle attività di cura non retribuite è sulle spalle delle donne. Pensiamo alla cura di bambini, anziani e malati.
In Italia prima della pandemia ogni donna dedicava alle attività di cura in media circa 5 ore al giorno, dopo la pandemia il tempo per queste attività è cresciuto di quasi un’ora e mezzo. Ma come fa una donna che dedica quasi 7 ore al giorno a queste attività gratis a trovare il tempo e le energie per lavori retribuiti?
Fra l’altro se la cura venisse retribuita supererebbe il fatturato totale delle cinquanta aziende più grandi al mondo (come Google, Amazon, Apple, H&M e via dicendo). Stiamo parlando di miliardi di dollari, un valore pazzesco, che se riconosciuto potrebbe essere tassato e reinvestito a beneficio di tutti.
È fondamentale capire che la cura è importante ma va necessariamente condivisa con il partner e fra i componenti della famiglia e poi bisogna creare uno stato sociale che supporti veramente le famiglie.
Quando nasce l’idea che le donne e l’economia siano due mondi paralleli?
Questa convinzione inizia con la seconda rivoluzione industriale. La teoria economica di allora (pensata, guarda caso da uomini) attribuisce alla donna una naturale predisposizione per la cura mentre all’uomo un ruolo autorevole nel mercato del lavoro.
È questa una prima fregatura clamorosa perché come abbiamo già detto l’attività di cura non è retribuita, mentre lo è il lavoro esercitato fuori casa, appannaggio però principalmente dei maschi.
Questo atteggiamento culturale è presente anche oggi e lo si vede fin dalla tenera età dove le bambine sono invitate a giocare con bambole e pentoline, mentre i bambini con i lego e i soldatini.
A questo si aggiunge una certa narrazione anche nei media e sui social della donna casalinga, madre e partner perfetta, amorevole compagna che accudisce l’uomo.
E’ vero che le donne sono le principali nemiche delle donne o è il contrario?
Partiamo con il dire che siamo tutte e tutti vittime di pregiudizi che ci sono stati inculcati e ci vengono tuttora inculcati sin da piccoli e piccole. Fra questi anche il famoso detto che le donne sono le peggiori nemiche delle donne e che non possono lavorare insieme.
La cosa mi fa sorridere perché invece io lavoro benissimo con un team di sole donne.
È vero però che c’è stata insegnata l’abitudine di criticare le altre donne, non tanto sulle competenze, quanto sull’immagine.
Cresciamo sentendo la competizione verso le altre donne e con l’idea di dover essere la più bella per ricevere le attenzioni dei maschi.
Pensa a quanto tempo perdiamo nel criticare come è vestita un’altra donna. Tempo che potremmo dedicare ad attività decisamente più importanti.
Sono pensieri che banalmente possono distrarci ad esempio quando siamo in una riunione e dovremmo invece stare concentrate sul nostro lavoro, invece ti pensiamo a come un’altra donna è truccata e vestita.
Ecco perché quando sentiamo nella testa quella vocina che ci spinge alla critica, mettiamola a tacere subito, ne beneficeremo noi in primis.
Tornando alla tua domanda, a proposito della competizione o sorellanza, i numeri, al contrario di quel che si crede, dimostrano che non è vero che le donne in azienda non riescono a fare gruppo.
E aggiungo che se si chiede alle donne che sono riuscite a realizzare quello che volevano fare nella loro vita chi devono ringraziare, nove su dieci ringraziano una donna oppure una rete di donne.
Non solo, una ricerca del Credit Suisse Research Institute mette in evidenza che quando le donne arrivano in ruoli di vertice nel 50% dei casi scelgono altre donne per costituire il loro team.
Si parla troppo poco di violenza economica, come far prendere consapevolezza alle donne di questo tipo di violenza così subdolo?
Sì, è un tema molto importante anche perché spesso purtroppo è la premessa per la violenza fisica e psicologica.
Talvolta si fa fatica a individuarla ma è anche in alcuni comportamenti comuni come il fatto di non avere un proprio conto corrente, il dover chiedere sempre al compagno i soldi per fare la spesa o il dover mostrare lo scontrino al partner dopo un acquisto.
La violenza economica è una forma di controllo. Non avere la gestione e il controllo del proprio denaro significa rimanere in un certo senso bambine, non diventare mai adulte. Il che vuole dire essere in una condizione di sottomissione e dipendenza.
Pensa che in Italia oltre un terzo delle donne non è titolare di un conto corrente personale. Il che vuole dire che sono tantissime le donne che non hanno libertà economica. E questo fenomeno è trasversale, riguarda tanto i livelli socioeconomici medio bassi quanto i contesti socioeconomici più elevati.
Il tema della violenza economica si lega molto, ancora una volta, a quello che insegniamo ai bambini e alle bambine. Ecco perché è fondamentale dire alle bambine di studiare, di fare ciò che desiderano, di realizzare i propri sogni.
A proposito del diventare ciò che si desidera, quanto è importante la rappresentanza femminile in tutti i settori e in tutte le cariche?
È importantissima, perché esiste il cosiddetto dream gap: se non vediamo delle donne che rivestono certi ruoli o in certi ambiti, pensare di ricoprire quel ruolo o fare carriera in quell’ambito non entra nel range delle possibilità che immaginiamo di avere.
Si fa oggi un gran parlare del fatto che poche ragazze si dedicano a materie STEM, ma immaginatevi di entrare in un’aula dove ti trovi in mezzo a 300 uomini, non penseresti come prima cosa che quello non è un posto che fa per te?
Allo stesso modo, se le bambine non vedono le donne in posizione di leadership, in politica, nelle aziende, in tutti i posti in cui si decide, allora avranno la percezione che non sono ruoli o ambienti dove possono sentirsi al loro posto.
A che punto siamo in Italia sul fronte della parità di genere?
Nel report sul gender gap del 2021 siamo al sessantatreesimo posto, mentre sull’uguaglianza economica siamo addirittura 114esimi su 153 Paesi.
Sono dati che fanno parecchio arrabbiare perché il nostro è il settimo Paese per Pil, non siamo un Paese arretrato, eppure sul fronte femminile c’è ancora molto da fare.
La nostra è una struttura veramente miope, se pensiamo che le donne in Italia studiano più degli uomini, si laureano prima e con voti più alti e poi le lasciamo all’angolo, non è assurdo?
Si tratta di un enorme spreco di talenti.
Le imprese femminili però sono sempre più numerose. Che idea ti sei fatta su questo fenomeno?
Che fare impresa è un atto di resistenza. Nel momento in cui vedi che hai tanto da dire e da dare, ma sei in un sistema che non ti valorizza, fare impresa rappresenta una rivoluzione silenziosa ma potente.
Pian piano tante imprese femminili stanno nascendo. Nel corso degli ultimi dieci anni le imprese femminili sono cresciute tre volte e mezzo il tasso di crescita di quelle maschili.
Ci stiamo conquistando degli spazi tutti nostri.
Possiamo dire che la disparità di genere rende tutti più poveri?
Sì, quando parliamo di gender gap tendiamo a pensare che le uniche a farne le spese siano le donne, invece se le donne non guadagnano siamo tutti più poveri.
Mi spiego meglio. Nel nostro Paese, dove lavora meno di una donna su due, produciamo il 50% di ricchezza in meno. Dunque, se le donne non lavorano, le prime a farne le spese sono loro, ma a cascata ne risente anche il Pil e quindi l’Italia intera.
Se attraverso il lavoro femminile Pil e ricchezza crescono, parte di questo valore con le tasse si tradurrà in maggiori servizi e quindi ne beneficiamo tutti.
La disuguaglianza di genere, dunque, non ci conviene innanzitutto economicamente. Banca d’Italia ci dice che il nostro Pil potrebbe crescere di 7 punti percentuali se solo tutta l’Italia avesse un tasso di occupazione femminile del 60%.
Vogliamo un paese più ricco, più felice, con relazioni di coppia più sane ed equilibrate? Bisogna creare le condizioni perché le donne lavorino, guadagnino e possano gestire il loro denaro in autonomia.
(Credit immagine in evidenza: Ilaria Corticelli)