Vediamo di essere chiari, fin dal principio: non è un problema solo nostro, anzi.
Il livellamento dei compensi verso il basso è un’evoluzione del mercato che affligge, in Italia, gran parte dei professionisti, dei consulenti, dei fornitori di servizi, non soltanto operatori e società della filiera di gestione del credito, o delle investigazioni. È una storia ormai vecchia e i motivi sono diversi. Non tutti, in teoria, maligni.
In testa, apparentemente, l’incremento della concorrenza, con la partita della competitività giocata quasi completamente sul campo dei prezzi. In una fase iniziale di apertura degli scenari la necessità di costruire e consolidare un portafoglio clienti sufficiente prima a sbarcare il lunario, poi a mettere magari da parte un nichelino – legittime pulsioni al cuore della crescita economica individuale e collettiva – conduce quasi naturalmente al decremento progressivo delle richieste, in fatto di emolumenti. Si abbassano le pretese, e con esse i margini operativi, per agganciare la “massa critica” degli interessati, magari a scapito di qualche grammo di qualità in capo ai servizi offerti.
S’investe per creare la base da cui poi ripartire, forti della fiducia acquisita, per proporre servizi meglio studiati e strutturati, più efficaci e curati, ma anche più costosi, in grado di assicurare maggiore soddisfazione al cliente, garantendo al tempo stesso non solo la sopravvivenza, ma possibilmente la crescita degli addetti al settore e l’onesta remunerazione di tutti quanti vi operano (la troppo spesso citata e troppo poco applicata logica win-win, vi dice niente?).
Tutto ciò in una sana economia di mercato e in un corretto regime concorrenziale. Nei quali ogni attore, pur mantenendo una salutare attenzione ai prezzi, analizza con cura anche il ritorno dei servizi “acquistati” e la loro incidenza a breve, medio e lungo termine su altre, fondamentali, voci di bilancio. E fa pesare, nella scelta dei partner, anche queste considerazioni, alla lunga – ma nemmeno troppo – ben più determinanti che non il semplice “listino dei prezzi”.
In condizioni ideali ed eque, appunto.
Nella maggior parte dei casi, nel nostro Paese, questo non si verifica, anche in settori in cui le condizioni di concorrenza appaiono ormai decisamente mature. E sembra non volersi verificare neppure nel prossimo futuro.
Soprattutto dal lato cliente si assiste ancora, troppo spesso, a una sorta di safari, alla ricerca del consulente o fornitore-preda, appetibile esclusivamente nella misura in cui sia disposto a concedere il “miglior prezzo”. Questa è la nostra proposta, signori, prendere o lasciare. Fuori c’è la coda. Oppure l’avvilente pratica delle condizioni modificate unilateralmente, al ribasso, a collaborazione già in corsa. Di nuovo: o così, o niente. Fuori c’è ancora la solita coda. Anche un po’ più cicciottella, del resto vige la crisi.
E la crisi esiste e resiste, dura e morde. Non se ne vede la vera fine. Ma è possibile e onesto giustificare tutto con “la crisi”’?
Secondo noi no. E nemmeno, come già discusso, in forza del combinato disposto “crisi più concorrenza”. Perché dalla crisi, a nostro parere, non si esce, almeno dal punto di vista del singolo business, puntando sul low cost a tutti i costi, ma, semmai sul giusto costo per un buon servizio.
Parlando di cose che conosciamo, potremmo soffermarci sui crediti deteriorati, i famigerati NPL. Un mercato in crescita – qualcuno commenterebbe: purtroppo – che alimenta un’offerta e una domanda, le quali però di rado s’incrociano in modo proficuo per tutti. Qualcuno perde, qualcuno vince. Poniamoci il quesito: quanto influiscono sulla redditività dei portafogli le assennate ed efficaci pratiche di recupero? Moltissimo, è dimostrato. Non lasciare, nemmeno in parte, al caso e alla fortuna il buon esito dell’operazione significa far fruttare in modo cospicuo l’investimento. Ma il recupero, di qualità, va da sé, costa un po’ di più.
Win-Win: ci facciamo un pensierino insieme, signori manager?