Negli ultimi trent’anni, a causa delle modifiche al sistema di assistenza sociale e della spesa eccessiva degli anni Ottanta, il debito pubblico è cresciuto in modo incontrollato, e si prevede che nel 2025 supererà i 3 trilioni.
Ogni promessa è debito
Ogni impegno diventa un debito, si sa. Nel caso dell’Italia, questo è letteralmente vero.
Secondo Bankitalia, nel mese di febbraio, il debito pubblico ha raggiunto la cifra di 2.872,4 miliardi di euro. Nel 2023, il rapporto debito pubblico/PIL si è attestato al 137,3%, quasi 20 punti in meno rispetto al 155,6% registrato nel 2020, l’anno critico della pandemia. Dopo tre anni di diminuzione, invece, grazie anche all’effetto del Superbonus, a partire dal 2024 è previsto un aumento, che porterà il dato al 137,8% nel 2024 e al 138,9% nel 2025, quando il debito supererà i 3.000 miliardi di euro, fino al 139,8% nel 2026. Solo nel 2027, secondo quanto indicato nel Documento di Economia e Finanza recentemente approvato, il trend dovrebbe tornare ad essere negativo.
Le previsioni sono più ottimistiche rispetto a quelle divulgate il 17 aprile dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), che prevede un debito al 139,2% nel 2024, al 140,4% nel 2025 e nessuna riduzione a partire dal 2027, con una stima del 144,9% nel 2029. Tuttavia, questi numeri sembrano non preoccupare eccessivamente Giancarlo Giorgetti: “Stiamo lavorando sulla sostenibilità del debito“, commenta il Ministro dell’Economia e delle Finanze durante gli Incontri di Primavera a Washington, “sappiamo che la sua stabilità dipende dalla capacità di generare crescita“.
Lo scoppio del debito dalle pensioni baby agli anni Ottanta
Dal 1989, il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato di oltre 40 punti, passando dal 93,1% al 137,3%. In quel periodo, il debito superava i 590 miliardi di lire, a causa di una corsa sfrenata iniziata nei primi anni ’70 con le riforme del sistema di assistenza sociale, in particolare con la riforma delle pensioni anticipate.
Contrariamente alla narrativa comune sulla “spesa sfrenata” del Pentapartito negli anni ’80, il problema va fatto risalire al decennio precedente: è lì che è iniziato il problema, con un aumento vertiginoso della spesa pubblica non accompagnato da un aumento delle entrate. Questo è evidenziato anche dalla decisione presa tra il ’81 e il ’82 dal ministro del Tesoro Nino Andreatta e dal governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi di separare le politiche fiscali da quelle monetarie.
Maastricht e l’ingresso nell’euro
Con l’avvento degli anni ’90, il contesto storico ha richiesto un cambiamento drastico: a confermarlo è stato il Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio ’92 con un’esitante firma del ministro del Tesoro Guido Carli), il quale ha imposto una rigorosa disciplina fiscale ai paesi membri. L’esplosione di Mani Pulite, avvenuta dieci giorni dopo la firma del trattato, ha reso ancora più evidente la necessità di questo cambiamento.
Il governo Amato è stato il primo a implementare misure drastiche, varando nell’estate del ’92 una manovra da 30 mila miliardi di lire (con il controverso prelievo forzoso retroattivo del 6 per mille sui conti correnti) per stabilizzare le finanze pubbliche.
È poi iniziata l’epoca delle privatizzazioni, dalle quali lo Stato ha ricavato circa 200 miliardi di euro in 15 anni, dieci volte l’ammontare che il governo attuale spera di ottenere dalla vendita di quote in società come MPS, Poste, FS ed ENI. Successivamente sono state introdotte misure come lo stop alla scala mobile e la riforma delle pensioni.
A guidare l’Italia verso l’adesione all’euro c’è stato il governo Prodi, che nel ’97 ha ridotto il deficit dal 7 al 2,7%, riuscendo così a rientrare nei parametri di Maastricht. Tuttavia, replicare questo miracolo sul fronte del debito, per il quale il limite era fissato al 60% mentre la realtà mostrava il doppio, era impossibile. Nonostante ciò, grazie a un abile lavoro contabile e diplomatico, nel ’98 Roma è stata comunque ammessa alla fase finale dell’Unione Monetaria, che avrebbe portato all’adozione dell’euro.
Negli anni Duemila si va da una crisi all’altra
Da allora, dopo un periodo iniziale di controllo, il debito ha ripreso a crescere a causa delle crisi dei mutui subprime (2007-2009) e dei debiti sovrani (2010-2011). La Covid ha peggiorato la situazione, contribuendo all’accumulo di 350 miliardi di debito tra il 2020 e il 2022. Non tutto questo debito è considerato “cattivo” (utilizzato per spese correnti), ma una parte è anche “buono” (come ebbe a dire anche Mario Draghi), destinato a investimenti mirati. Tuttavia, resta comunque debito, su cui si accumulano interessi passivi che ammontano a mille miliardi tra il 2009 e il 2023.
A complicare ulteriormente la situazione, già da patologica diventata fisiologica, ci sono state le misure adottate per contrastare gli effetti della Covid, come il NextGenEu e il Superbonus. Il disastro di quest’ultimo, vera misura assistenzialista nel più perfetto stile ottocentesco, è sotto gli occhi di tutti.
Per quanto riguarda il primo, all’Italia spetta la quota europea più consistente, pari a 194 miliardi, di cui 123 finanziati tramite debito. Riguardo al secondo (con un totale di 170 miliardi, che salgono a 219 sommando altre agevolazioni), si sono susseguiti numerosi dibattiti e preoccupazioni. L’effetto devastante registrato sul deficit nel 2023 (7,2% rispetto alle stime del NADEF che indicavano il 5,3%) si rifletterà proprio sul debito a partire dal 2024.
E dunque?
È inevitabile, dunque, ridurre il peso del debito. Le privatizzazioni da sole non sono sufficienti: ridurre di 20 miliardi (come indicato nel Documento di Economia e Finanza) un debito di 3 mila miliardi non è una strategia efficace.
Nei prossimi mesi, l’obiettivo riguardante il rapporto debito/PIL dovrà puntare a far crescere il denominatore contenendo il numeratore attraverso una seria revisione della spesa. Per realizzare ciò, il PIL dovrà tornare a crescere a un ritmo dell’1-1,5% annuo, attualmente un’utopia, ma potenzialmente realizzabile domani con l’aiuto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Bruxelles sta osservando da vicino l’evoluzione del tutto con il nuovo Patto di Stabilità.