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Due persone che prendono pensioni che camminano a fianco; banconota da 500 euro

Le pensioni sono sostenibili al livello attuale? Radiografia della spesa previdenziale italiana nel 2025

Nel dibattito pubblico italiano, il tema delle pensioni resta centrale per la tenuta economica e sociale del Paese. I dati aggiornati al 2025 offrono uno spaccato eloquente sulla distribuzione della spesa previdenziale e sulle diseguaglianze tra categorie. Un’analisi puntuale rivela squilibri strutturali che meritano attenzione e riforma.

Nel 2025 la spesa pensionistica italiana è stimata in 289,4 miliardi di euro, pari al 15,3% del Prodotto Interno Lordo. I dati sono certificati dalla Ragioneria Generale dello Stato. È una cifra imponente che evidenzia tanto il peso economico del sistema previdenziale quanto le profonde diseguaglianze strutturali tra le sue componenti principali: dipendenti privati, dipendenti pubblici e lavoratori autonomi.

La composizione della spesa per le pensioni: numeri e struttura

Nel 2025, la spesa pensionistica complessiva in Italia ammonta a circa 289,4 miliardi di euro, articolata in diverse componenti. Le pensioni dirette, cioè quelle percepite dal titolare del diritto, costituiscono la quota più rilevante: 134,9 miliardi sono destinati agli ex dipendenti del settore privato, 71 miliardi a quelli del settore pubblico e 35,5 miliardi ai lavoratori autonomi. A queste si aggiungono le pensioni indirette, come quelle di reversibilità, che rappresentano una spesa di 26,6 miliardi per i dipendenti privati, 9,3 miliardi per i pubblici e 6,7 miliardi per gli autonomi. Infine, una componente residuale ma significativa, pari a 5,3 miliardi, è rappresentata dagli assegni sociali liquidati dopo il 1995, destinati ai soggetti in condizione economica disagiata. Questa articolazione riflette la struttura complessa del sistema previdenziale italiano e consente una prima lettura delle dinamiche di spesa tra le diverse categorie professionali.

Numerosità e media delle pensioni

Analizzando la numerosità delle pensioni erogate nel 2025, emerge con chiarezza la diversa incidenza tra le categorie. Le pensioni dirette ai dipendenti privati ammontano a circa 6,75 milioni, un numero sensibilmente più elevato rispetto alle 2,59 milioni riconosciute ai dipendenti pubblici e alle 3,85 milioni destinate agli autonomi. Sul fronte delle pensioni indirette, quelle rivolte ai superstiti dei dipendenti privati sono 2,41 milioni, a fronte di 659.000 relative al settore pubblico e 1,3 milioni per gli autonomi. A queste si sommano circa 898.000 assegni sociali liquidati dopo il 1995.

Incrociando questi dati con le rispettive voci di spesa, si osservano importanti differenze nella pensione media. I dipendenti pubblici percepiscono in media trattamenti significativamente più elevati rispetto ai privati, pur essendo in numero molto inferiore. Al contrario, i dipendenti privati rappresentano la quota numericamente più consistente, ma con assegni medi sensibilmente più contenuti. Gli autonomi, infine, si caratterizzano per pensioni mediamente basse, a fronte di una presenza numerica intermedia e una forte variabilità legata alle fasi del ciclo economico e alla discontinuità contributiva.

CategoriaSpesa Totale (M€)N. Pensioni (k)Pensione Media (€ annui)
Dipendenti Privati161.4559.15717.632
Dipendenti Pubblici80.3973.25324.713
Autonomi42.1895.1468.202

È evidente che i dipendenti pubblici percepiscono in media una pensione superiore del 40% rispetto ai dipendenti privati, e oltre tre volte rispetto agli autonomi.

Il peso relativo sul PIL

La spesa pensionistica complessiva, pari a circa 289,4 miliardi di euro, rappresenta nel 2025 il 15,3% del Prodotto Interno Lordo, stimato intorno a 1.891 miliardi. Scomponendo questa percentuale in base alle categorie professionali, si nota che le pensioni dei dipendenti privati — comprendendo sia le dirette sia le indirette — costituiscono l’8,53% del PIL, pari a circa 161,5 miliardi di euro.

Le pensioni dei dipendenti pubblici si attestano a 80,4 miliardi, corrispondenti al 4,25% del PIL, mentre quelle degli autonomi raggiungono i 42,2 miliardi, ovvero il 2,23%. La componente rimanente, lo 0,29%, è riconducibile principalmente agli assegni sociali liquidati successivamente al 1995. Questo quadro complessivo consente di quantificare il peso relativo delle singole categorie sulla ricchezza nazionale e di evidenziare in modo chiaro come il carico previdenziale si distribuisca in modo diseguale tra i diversi segmenti del sistema.

Considerazioni Strutturali e Prospettive di Riforma

L’analisi dei dati evidenzia alcune criticità sistemiche:

  1. Asimmetria nei trattamenti medi: A fronte di una numerosità più che tripla rispetto ai pubblici, i dipendenti privati ricevono pensioni significativamente inferiori. Questo riflette carriere discontinue, salari più bassi e, in parte, effetti delle riforme contributive post-1995.
  2. Autonomi penalizzati: Pur contribuendo pienamente alla fiscalità generale, i lavoratori autonomi rappresentano il segmento più fragile del sistema, con pensioni spesso sotto la soglia di sopravvivenza. La loro situazione riflette non solo una struttura contributiva differente, ma anche decenni di instabilità macroeconomica: dalla crisi del 2008, alla pandemia da COVID-19, fino agli effetti del lavoro ibrido e smart working sul tessuto produttivo.
  3. Rischio di tensioni sociali: L’attuale assetto rischia di amplificare le fratture sociali, specie se non accompagnato da misure di equità intergenerazionale e perequazione contributiva. La mancanza di una rappresentanza politica forte per i lavoratori autonomi rischia di esacerbare ulteriormente il clima.

La sfida della sostenibilità delle pensioni

Il sistema previdenziale italiano si trova da anni al centro di un equilibrio sempre più difficile tra equità sociale e sostenibilità economica. I dati del 2025 confermano che la spesa pensionistica continua a rappresentare una delle voci più rilevanti del bilancio pubblico, con un’incidenza pari al 15,3% del PIL. Questo valore, tra i più alti in Europa, riflette non solo le dinamiche demografiche del Paese — con l’invecchiamento progressivo della popolazione e il calo della natalità — ma anche l’eredità di un sistema che ha garantito per lungo tempo trattamenti generosi a fronte di carriere contributive talvolta incomplete o frammentarie.

Quindi, senza giri di parole: finché la situazione economica è stata buona (boom economico post seconda guerra mondiale e almeno fino al 1970), il sistema ha teso a una generosità che ha ripagato sul momento, ma che era totalmente cieca verso il futuro, e che ha portato direttamente alla precaria situazione attuale.

La tenuta del sistema è messa ulteriormente alla prova da squilibri evidenti nella distribuzione delle prestazioni. I dipendenti pubblici, ad esempio, percepiscono in media pensioni più elevate pur essendo numericamente inferiori rispetto ai dipendenti privati, a testimonianza di un sistema che ha riconosciuto loro trattamenti più favorevoli. Gli autonomi, invece, pur contribuendo in modo determinante alla fiscalità generale, ricevono pensioni mediamente molto più basse, anche a causa di carriere spesso discontinue, redditi irregolari e una maggiore esposizione alle crisi economiche degli ultimi decenni. La loro marginalizzazione previdenziale, se non accompagnata da politiche di tutela e inclusione, rischia di alimentare tensioni sociali e nuove forme di povertà latente.

Revisione obbligatoria

In questo contesto, appare sempre più urgente una riflessione di sistema. La sostenibilità non può essere perseguita esclusivamente attraverso interventi tecnici di contenimento della spesa o innalzamento dell’età pensionabile, ma richiede una revisione strutturale del patto tra generazioni, dell’equilibrio tra contributi versati e prestazioni ricevute, e delle tutele riservate a chi ha svolto carriere non lineari. Serve inoltre una maggiore trasparenza sulla redistribuzione interna al sistema previdenziale e, soprattutto, un riconoscimento pieno del ruolo economico e sociale degli autonomi, da troppo tempo sottorappresentati sia a livello politico sia nei meccanismi di compensazione sociale.

In assenza di un riequilibrio credibile ed equo, la pressione sulle finanze pubbliche e le crescenti disparità tra categorie rischiano di compromettere la coesione sociale, minando alla base la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella sostenibilità futura dello Stato sociale.

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