CIDA e Itinerari Previdenziali hanno presentato l’Osservatorio dedicato a entrate fiscali e finanziamento del sistema di protezione sociale. Il 79,2% degli italiani dichiara un reddito fino a 29mila euro, corrispondendo solo il 27,57% di tutta l’IRPEF, cifra che non copre neanche il welfare minimo.
Pagano solo i soliti noti?
Il reddito totale generato nel 2020 e dichiarato nel 2021 per l’IRPEF è fino a 865.074 miliardi, con un reddito IRPEF generato di 164,36 miliardi, in diminuzione del 4,75 % anno dopo anno.
In calo anche i dichiaranti (41.180.529) e i contribuenti/contribuenti, cioè coloro che pagano almeno 1 euro di IRPEF, che diminuiscono a 30.327.388, il valore più basso registrato dal 2008.
Diminuisce anche la quota di contribuenti che sopportano maggiormente il carico fiscale: mentre quasi la metà degli italiani (49,15%) non dichiara nemmeno il reddito, tra i contribuenti, un piccolo 12,99%, con reddito pari o superiore a 35.000 euro, deve versare il 59,95% dell’IRPEF.
Nonostante sia stata duramente colpita dal COVID-19 (e dalle implicazioni reddituali delle relative misure di contenimento), nonché dall’aumento dei bonus, del sostegno al reddito e degli strumenti assicurativi dell’assistenza sociale, quella che emerge dall’Osservatorio è un’immagine che dovrebbe invitare i media, i sindacati e le classi politiche a riflettere sulle difficili proposte di riforma.
Presentata di recente al CNEL, in un convegno promosso in collaborazione con CIDA (Confederazione Italiana Dirigenti ed Alte Responsabilità), l’indagine effettua un’analisi annuale delle dichiarazioni IRPEF delle persone fisiche, IRAP delle imprese e delle altre imposte dirette e indirette (comprese le entrate IRES, ISOST ed IVA). Questo al fine di raccogliere indicatori utili a comprendere la situazione economica, le realtà socio-economiche del Paese e verificare la stabilità del sistema di protezione sociale.
Un paradosso inaccettabile
“Siamo ora di fronte a paradossi inaccettabili. I nostri dati descrivono una società in cui i salari non aumentano, ed un minor numero di lavoratori sopporta il crescente carico fiscale. Il fatto che i lavoratori con un reddito complessivo superiore ai 35.000 euro costituiscano solo il 13% apre una sola scelta: o si scivola verso un impoverimento generale indegno di una potenza industriale, oppure c’è una grande popolazione sommersa in questo Paese. Continuiamo infatti a sostenere gli evasori: sembra proprio così.”, ha commentato Stefano Cuzzilla, Presidente del CIDA.
“Il risultato è un danno per le persone oneste, che continuano a contribuire alla prosperità e alla solidità delle finanze pubbliche e che, negli ultimi decenni, sono state ripetutamente punite con l’ostruzione della perequazione, della rivalutazione parziale e del contributo di solidarietà, con conseguente perdita del potere d’acquisto.
E dopo i danni, c’è anche sdegno per chi, per effetto della manovra, si vedrà tagliare linearmente l’adeguamento pensionistico, e quindi non potrà accedere a quota 103 con il tetto specificato, finanziato proprio da questi tagli“.
“Insomma, non solo chi dà di più continua a pagare gli altri“, – conclude Cuzzilla – “ma continuano a essere proposte soluzioni “ponte” senza risolvere le gravi contraddizioni del Fisco“.
Il difficile finanziamento del welfare
Nel 2020 sono serviti 122,72 miliardi per la spesa sanitaria, 144,76 miliardi per le prestazioni sociali, ed altri 11,3 miliardi per il welfare delle comunità locali. Il conto complessivo di 278,78 miliardi, in assenza di imposte specifiche (come avviene per le pensioni comprese nel patrimonio netto dell’IRPEF), è finanziato mediante detrazione dalle imposte generali.
A queste sole queste 3 spese, quindi, sono state stanziate IRPEF, addizionale, IRES, IRAP e ISOST, oltre a oltre 50 miliardi di imposte indirette.
“Negli ultimi 13 anni il reddito dichiarato è aumentato di circa il 10%, che è inferiore all’inflazione attuale, e molto inferiore alla spesa pubblica e soprattutto sociale, che è aumentata del 98% e nel 2020 ha raggiunto valori pericolosamente vicini a quello delle entrate normali dell’IRPEF.
Bastano questi pochi dati per capire quanto sia un grave fardello quello che stiamo affrontando – commenta il professor Alberto Brambilla, che ha curato il libro con il dott. Paolo Novati – e lasciate alle altre funzioni dello Stato, necessarie allo sviluppo del Paese (quali scuole, infrastrutture, investimenti di capitale, ecc.), restavano solo le imposte indirette, le accise ed il processo di rimborso del debito. Un debito che cresce spaventosamente ogni anno nell’indifferenza più generale, e che ci condanna ad essere, di fatto, l’ultimo Paese in Europa per occupazione e produttività”.
Un Paese di poveri?
Dei 59.641.488 cittadini residenti in Italia al 1° gennaio 2020, 41.180.529 hanno presentato la dichiarazione dei redditi per il 2021 (con riferimento all’anno d’imposta precedente).
Tuttavia, solo 30.327.388 residenti pagano almeno 1 euro di IRPEF, che è poco più della metà degli italiani: ogni contribuente corrisponde, quindi, a 1.448 residenti.
Un quadro che appare fuorviante se si guardano le abitudini di consumo e di spesa (e più vicine a quelle di un Paese povero che a quelle di uno Stato membro del G7): tuttavia, il 79,2% degli italiani dichiara che la dichiarazione dei redditi ammonta a 29mila euro e corrisponde solo a 27,57 % di tutte le IRPEF, e quindi una sola tassa non basta nemmeno a coprire i costi delle grandi funzioni sociali.
D’altra parte, la ripartizione mostra che poco più di 5 milioni di persone con redditi superiori a 35.000 euro sono, in sostanza, gravate dal finanziamento del nostro stato sociale.
In particolare, esaminando i rendimenti delle fasce di reddito più alte, superiori ai 100mila euro, l’Osservatorio ha individuato solo l’1,21% dei contribuenti, ma questi versano comunque il 19,91% di imposta.
Sommando a questi contribuenti anche quelli con un reddito complessivo compreso tra 55.000 e 100mila euro (che sono 1.385.974, il 3,37% del totale, e pagano il 18,14% dell’imposta totale), otteniamo il 4,58%, che paga il 38,05% dell’IRPEF.
Infine, includendo il reddito complessivo compreso tra 35.000 e 55.000 euro, si finisce per dimostrare che il 12,99% paga l’IRPEF al 59,95%.
La diminuzione della ricchezza
In sintesi, l’Osservatorio mostra che i redditi per tutte le fasce di reddito sono diminuiti mentre la pressione fiscale, che è quindi diminuita in termini assoluti, è rimasta sostanzialmente invariata: insomma, sempre meno contribuenti pagano di più.
“Dati su cui riflettere – spiega Brambilla, osservando che “le differenze tra le diverse classi sono decisamente forti, e dovrebbero essere aggravate dai recenti provvedimenti, che aumentano il numero e pubblico di beneficiari di varie sovvenzioni e sussidi.
Aiutare chi ha bisogno è giusto, ma i nostri decisori politici tendono a dimenticare che queste percentuali dipendono in gran parte dal sommerso, dall’evasione fiscale e dalla mancanza di adeguati controlli, dove (purtroppo) “eccelliamo” in Europa. è davvero pensabile che più della metà degli italiani vivano con un reddito lordo inferiore a 10.000 euro l’anno?”
Tra le idee sbagliate esposte dalla pubblicazione c’è anche l’oppressione fiscale, ovvero il fatto che (tutti) i cittadini siano molestati dalle autorità fiscali, e penalizzati con tasse eccessive.
Solo per pagare le spese mediche, per le prime 2 fasce di reddito fino a 15mila euro, la differenza tra l’IRPEF pagata e le spese sanitarie arriva fino a 51,817 miliardi di euro. La differenza ammonta a 58,2 miliardi di euro aggiungendo entrate da 15 a 20 mila euro.
Considerando anche la spesa sociale, assistenziale e di welfare delle Amministrazioni locali, la redistribuzione complessiva è pari a 219 miliardi su circa 555 miliardi di reddito, meno gli oneri sociali.
La ridistribuzione della ricchezza
Viene infatti ridistribuito il 40% del reddito complessivo e quasi il 100% delle imposte dirette, di cui beneficia integralmente il 58,06% della popolazione (corrispondente a chi dichiara fino a 20mila euro) ed, in parte, il restante 28,96% (corrispondente al dichiarante da 20 a 35 mila euro); poco o niente per il 12,99% dei pagatori.
“Si tratta di un continuo trasferimento di ricchezza, sotto forma di servizi gratuiti, di cui il vasto pubblico non è nemmeno a conoscenza – sottolinea Brambilla – di fronte alle ripetute promesse di nuove donazioni da parte della politica e alla costante minaccia di abolire la detassazione sui redditi da 35.000 euro, che non ha effettuato neppure il virtuoso governo Draghi”.
Il reddito, del resto, è lordo, e non certo il reddito dei “ricchi”, che tuttavia sconta il paradosso italiano per cui più tasse si pagano, più si ricevono meno soldi dai servizi: una progressione potenziale e pericolosa, che punisce i frequenti contribuenti, ed incoraggia i cittadini ad evadere o denunciare meno per non rinunciare a prestazioni sociali o agevolazioni dallo Stato, Regione e/o Comune.
Le proposte di riforma fiscale
Secondo il Centro, è certo che l’impatto di prevedere una combinazione di imposte dirette e indirette potrebbe rendere la tassazione eccessiva in Italia, ma allo stesso tempo è necessario ricercare nuove soluzioni, basate proprio sulla realtà del Paese, e che sappiano superare il banale dualismo tra “ricchi” e “poveri”.
Se i conflitti di interesse tra clienti e fornitori diretti di beni e servizi si rivelano un ottimo modo per favorire l’emersione agevolando al tempo stesso le finanze delle famiglie italiane, i tagli fiscali sui bonus e gli aumenti salariali sono la giusta via per abbassare il cuneo fiscale dei dipendenti in modo modo equo e sostenibile.
“Con l’articolo 23 del cosiddetto Decreto Aiuti-bis, il governo Draghi ha seguito la strada poi imposta dal più recente Decreto Aiuti-quater, intervenendo sull’ammontare di denaro versato dai datori di lavoro nel 2022, e sulle modalità di pagamento con cui esentare i dipendenti dal pagamento degli oneri previdenziali e fiscali (i fringe benefits) ai sensi dell’art. 51, comma 3, del TUIR.
Estendere questa innovazione nei prossimi anni, e semplificare il processo di accesso all’assistenza sociale professionale, potrebbe fare una grande differenza. Ciò in quanto l’accesso delle PMI a detto welfare oggi tende ad essere ostacolato dalla burocrazia. Si parla di una differenza fino al 15% per i redditi sino a 15mila euro, e all’8% per quelli da 25mila.
In particolare, questi versamenti in busta paga in esenzione fanno sì che lo Stato “perda” solo una piccolissima IRPEF, ben recuperata dalle imposte dirette e indirette gravanti sull’utilizzo di tali somme.
Per i lavoratori autonomi sono ipotizzabili altre misure compensative con la stessa finalità”.
L’Osservatorio è disponibile per la consultazione a questo link.